Lo studio da solo non basta. I tanti, tantissimi praticanti d’Italia lo sanno bene: a metà strada tra la figura del professionista e quella dello stagista. Col risultato che il praticante, alla fine, non è né l’uno né l’altro, ma semplicemente il giovane laureato che dai banchi dell’università passa alla scrivania di uno studio professionale senza sapere ancora bene di che cosa andrà a occuparsi. La speranza è che il percorso di apprendimento svolto direttamente sul campo (dove le nozioni teoriche lasciano finalmente il posto al saper fare) lo abiliti a sostenere dapprima un Esame di Stato e poi, se tutto va bene, ad arrivare alla tanto agognata iscrizione all’Albo, in modo da riscattarsi definitivamente dallo status di apprendista. La durata del praticantato varia secondo il tipo di professionalità. Solo per fornire qualche esempio: due sono gli anni per gli aspiranti avvocati, tre per i commercialisti, diciotto mesi per i notai.
Uno stipendio chiamato rimborso spese
Il comune denominatore tra tutte queste pratiche professionali è certamente lo sforzo lavorativo richiesto. Determinazione, abnegazione ed entusiasmo per l’ambiente in cui ci si trova sono gli ingredienti necessari per la buona riuscita del praticantato. Ancora più importanti se si tiene conto che, almeno all’inizio, la retribuzione avviene più a titolo di rimborso spese che non a titolo di compenso per la prestazione ricevuta. La mentalità è un po’ quella dello studio-bottega: il ragazzo si “allena” sotto la guida attenta del datore di lavoro nella speranza di potersi, un giorno, mettere in proprio. I codici deontologici di avvocati e commercialisti, va detto, prevedono un compenso commisurato all’apporto concreto offerto dal tirocinante, anche al fine di incentivarlo all’assiduità e all’impegno nell’attività svolta. In fondo si tratta di manodopera qualificata, vale a dire di ragazzi laureati che hanno molto da dare allo studio professionale, anche se sono alle prime armi e con la testa piena zeppa di definizioni e concetti da manuale. Se è vero, infatti, che all’inizio ci si muove incerti, senza sapere bene dove mettere le mani, altrettanto vero è che passati i primi mesi il giovane tirocinante comincia a prendere una certa dimestichezza con il lavoro, trasformandosi via via da inesperto della materia (pronto ad assorbire come una spugna tutto quanto risulti utile alla sua preparazione) a elemento attivo e propositivo cui affidare anche importanti compiti.
Ma a questa crescita di professionalità corrisponde anche un miglioramento della posizione economica? La risposta non è univoca e molto dipende dallo studio professionale in cui ci si trova: piccolo o grande, con un unico titolare o più associati, prestigioso e meno prestigioso, di provincia piuttosto che di una metropoli come Roma o Milano. La zona geografica di riferimento, insomma, non si può sottovalutare. Ad ogni modo appare abbastanza scontato che in presenza delle 200/400 euro mensili non si possa assolutamente parlare di uno stipendio degno di questo nome.
I rimborsi spese, perché di questo si tratta, quando vengono elargiti sono una realtà soprattutto nei grandi centri, essendo difficile per i giovani tirocinanti vedersi retribuiti in un piccolo o medio studio del Meridione. Anche da questo punto di vista si possono dunque individuare delle differenze tra Nord e Sud, sia pure nella complessità che queste stesse macroaree presentano al loro interno. Non fosse altro perché, quanto più si sale, più vanno aumentando i grandi studi professionali improntati a logiche di stampo aziendalistico. In questo genere di contesti è più facile che i rimborsi spese vengano accordati, così come maggiori chance ci sono perché questi stessi rimborsi, generalmente da 500 o 600 euro, si trasformino in un reddito mensile da mille e più euro. La logica è quella dell’escalation reddituale tipica della migliore tradizione privatistica: più produci e sei bravo nel maneggiare gli strumenti del mestiere (grazie soprattutto al lavoro svolto sul campo grazie al praticantato) più guadagni. Sta di fatto, comunque, che per il giovane che ha terminato il tirocinio, e magari superato pure l’Esame di Stato, a un certo punto può iniziare a farsi strada un dubbio, o forse sarebbe meglio dire un bisogno di libertà: e cioé se valga la pena di continuare a rimanere nello studio professionale che lo ha “ospitato” o se, facendo quattro conti alla mano, non sia meglio impegnarsi per la nascita di un proprio studio professionale. Altre volte, invece, il problema neanche si pone. Non potendo, lo studio professionale, offrire quel qualcosa in più che vada oltre il semplice praticantato (ovvero un lavoro sicuro e finalmente ben pagato). Proprio come capita nei piccoli studi di provincia, appunto. Tuttavia va detto che è già nel periodo di tirocinio che il praticante capisce che aria tira e, soprattutto, se sussistono le condizioni per un successivo inserimento.
Da tirocinante a libero professionista
Mettersi in proprio può essere una buona idea, specie se si condivide l’avventura professionale con altri giovani soci per ammortizzare più velocemente gli investimenti iniziali e sostenere insieme le spese correnti. In questo modo ci si slega dai lacci imposti dall’impiego subordinato per aspirare a guadagni maggiori. Si consideri, però, che in un mercato ingessato come quello italiano, dove la competizione tra liberi professionisti di uno stesso settore è ancora frenata dalla presenza dei tariffari, è davvero difficile per un neoprofessionista riuscire a farsi la sua personale clientela senza che gli venga concesso di praticare delle tariffe più basse rispetto a quelle dei colleghi più “navigati”. Farsi un nome di tutto rispetto, insomma, non è cosa facile. A riprova che la gavetta non termina affatto con la fine degli anni del praticantato, anzi, se possibile, il difficile inizia proprio da qui.